Lo smart working nasce con l’intenzione di offrire l’opportunità di trovare un giusto equilibrio tra la vita privata ed il lavoro. Eppure da quando è iniziata questa storia del virus, molte persone non fanno altro che lavorare.
Il tempo ha assunto una dupplice dimensione. Se da una parte sembra dilatarsi allo stesso tempo vola incredibilmente.
Chi è a casa a fare lavori d’ufficio non si dà una disciplina perciò non riesce a conciliare né i tempi né gli spazi di casa, con un aumento pazzesco della tensione emotiva.
Chi fa la libera professione o ricopre posizioni di responsabilità, si stordisce di attività in modo nevrotico e compulsivo.
Webinar, aggiornamenti, riunioni, telefonate, la connessione che non regge, il computer da aggiornare. Poi videoconferenze con i colleghi, con i parenti, con gli amici e persino con i vicini di casa.
Connessi sempre. Senza una sosta. Consapevolmente sopraffatti ma incapaci di dire stop. Incapaci di chiedere aiuto.
Paradossalmente viviamo confinati pur essendo in costante attività. Forse perché il tempo come dimensione dell’esistenza, non ha significato se non occupato con qualcosa. Ma cosa?
Eppure la mia sensazione è che l’iperconnessione e la ricerca spasmodica di trovare soluzioni metta in evidenza soltanto una cosa: la nostra impotenza davanti a questa enorme crisi.
Penso che la maggior parte delle persone senta la necessità di fare e ancora fare. Perché se si fermasse ad ascoltare sentirebbe una eco angosciosa. Un nulla terrificante.