Sono nata e cresciuta a Modena, ho studiato a Bologna, lavoro con aziende del territorio e ne vado fiera. Sono figlia di migranti, quelli che negli anni 70 del secolo scorso non arrivavano con i barconi ma con il treno stipato e intriso di odori intensi e appiccicosi. Quelli che dall’Irpinia arrivavano a Napoli e con la pastiera e i babbà, prendevano il diretto per Bologna e poi da lì la corriera per raggiungere mete limitrofe, talvolta in città come Modena altre volte in ‘paesotti’ come Sassuolo, Mirandola, Carpi con uno scopo ben preciso: migliorare la propria vita.
Sarebbe stato bello poter dire di aver respirato la salsedine del mare o l’aria fresca dei monti ma non è così. Quello che ho addosso, invece, è il vapore acqueo della nebbia – che pure lei ha il suo fascino quando stimola la fantasia! Ma ciò che sento dentro ancora di più è il richiamo della via Emilia, questa antichissima strada che con i suoi ciottoli, ha contribuito significativamente alla costruzione del paese dei campanili e con essi dell’intera antropologia di una regione.
Questa lunga SS – strada statale 9 con i suoi annessi e connessi, è stata un modello politico e sociale per i suoi sostenitori come per i suoi detrattori. Vero e proprio zibaldone di storia, ha unito interi microcosmi di uomini e donne, di città e culture, tessuti produttivi piuttosto assortiti producendo un senso di coesione ben riuscito, almeno fino al secolo scorso. Essa ha contribuito in modo evidente a costruire uno spirito del tempo che non può prescindere dai villaggi artigianali prima, i distretti industriali poi fino a luoghi ad alta concentrazione di creatività e ingegno come la motor valley oggi trasformati in luoghi di sperimentazione per le tecnologie digitali.
Come formatrice e counselor mi ritengo fortunata di poter svolgere il mio lavoro in un contesto che ha radici profonde non solo nella produttività ma anche nel piacere di progettare un futuro migliore. Sì, perché in questo tessuto si è reso possibile il miracolo del modello emiliano in un paradigma socioeconomico oggi sicuramente indebolito e obbligato a fronteggiare drastiche modificazioni, ma che nei decenni passati ha avuto il merito e il risultato storico di traghettare le popolazioni locali all’interno delle dinamiche dell’intera società.
Come umanista convinta, che vive e si confronta con la sua epoca, penso che i numeri e le statistiche siano descrittive dei fenomeni ma che per vedere davvero un’anima – l’anima di un tempo oltre che delle persone – e comprenderne il senso non possono bastare. Perché nonostante la tensione verso il futuro e verso un tessuto produttivo e di servizi sempre più all’avanguardia, rimane nelle nostre realtà una mentalità a tutti gli effetti di natura familiare.
Sono spesso piccole e medie aziende partite in piccolo con qualche dipendente per assumerne fino ad una cinquantina. L’approccio medio è quello di essere troppo prese da se stesse e in balia di vecchi modi di gestire clienti, collaboratori e mercato. In questo contesto, introdurre le tecnologie senza trasformare abitudini e processi è inutile, e può rivelarsi uno spreco di soldi e di tempo.
Abbiamo sempre fatto così! Ecco il muro da abbattere un muro mentale che tende ad essere fronteggiato privilegiando i soli aspetti quantitativi, come i risultati di business, i tempi e i costi del progetto e trascurando invece l’attivazione di ruoli e competenze e il reale supporto alle attività necessarie per cambiare.
Grata e affezionata a questa terra sento di voler contribuire all’attivazione di un nuovo umanesimo che dovrà interagire sempre di più con il digitale senza dimenticare le motivazioni che spingono le persone ad agire in un certo modo, perché se qualche tempo fa, lungo questa via dei motori bastava vivere una “vita spericolata”, oggi torna necessario darsi di nuovo una direzione, tanto basti che anche il Blasco nostrano sostiene cantando che sia giunto il tempo di dare “un senso a questa vita anche se un senso non ce l’ha”.