Caleidoscopio

Il caleidoscopico mondo delle donne

“Non è la natura che definisce la donna: è lei che si definisce rielaborando in sé la natura, secondo i propri moti affettivi.” Simone de Beauvoir

Non c’è nulla al mondo che mi dia l’idea del femminile come il caleidoscopio. Questo oggetto è incredibilmente affascinante perché ci consente di vedere varie facce della stessa situazione. Ci sono quelli dove vedi tante forme e quelli in cui se li punti contro qualcosa te la fa vedere frastagliata in mille pezzi. In realtà anche se sembra un gioco da prestigiatore tutto ciò è possibile soltanto grazie alla luce che entra dal fondo e si riflette nei frammenti di vetro sugli specchi contenuti. Nonostante la spiegazione scientifica l’oggetto in sé rimane fonte di stupore e meraviglia.

Esattamente come le donne per gli uomini anche se ci sono cantautori che ci descrivono meglio dalla nostra stessa pancia. Per alcuni siamo quelle “in cerca di guai”, quelle “al telefono che non suona mai”; siamo “dolcemente complicate”. Siamo quelle che qualcuno “vuole per una notte e c’è chi invece la prende a botte”.

Siamo quelle che se fino agli anni Sessanta speravano di telefonare nello stupore della notte per dire addio. Oggi invece siamo quelle che possono interrompere una relazione con un messaggio di WhatsApp senza esserne poi così stupite.

Credo che questa “evoluzione antropologica” sia dovuta non soltanto per quel meraviglioso movimento femminista che ha innescato l’autocoscienza ma anche per il rapporto che le donne stesse provano nei confronti dell’autorealizzazione, della coppia, della famiglia, del lavoro e della maternità.

Si dice che nella vita ci siano almeno tre cose che bisogna fare: piantare un albero, scrivere un libro e fare un figlio. Una visione che a mio avviso renderebbe il caleidoscopio femminile meno ricco rispetto a quello che oggi si può essere davvero. Infatti, se un tempo le donne sentivano il bisogno di realizzarsi diventando madri, ora quella condizione non esiste quasi più. Oggi sappiamo che i bisogni oltre che ad essere necessità biologiche, vengono spesso indotti dalla cultura, una cultura che non solo non va a passo con i tempi e che non va d’accordo con il livello di autoconsapevolezza personale.

La verità è che la cultura patriarcale plasma e utilizza le persone a scopo commerciale e per mantenere lo status quo. Spesso non considera il sesso neppure in contesti delicati come la sanità in cui la medicina di genere è sempre poco conosciuta; o il carcere dove i bisogni delle donne sono sempre sottovalutati rispetto a quelli dei detenuti maschi e dove le stesse architetture non favoriscono l’espressione della femminilità. Non è poi così difficile vedere le donne degli uomini detenuti o le detenute stesse assumere atteggiamenti maschili.

Forse quel “dolcemente complicate” vuole edulcorare le tante problematiche legate al femminile negandone la sua complessità.

Sì, è vero ci sono donne che nascono madri. Sono quelle che lo vedi da come si comportano coi fratelli e con le bambole. Premurose oltremisura sin da piccole, con chiara vocazione che le porterà alla piena realizzazione grazie alla pancia. Sono sempre incinte! Ma ci sono anche quelle che pur non sentendo quella spinta, subiscono la pressione sociale: quando ti sposi? quando fai un figlio? fallo ora che poi sfiorisci! E ci sono quelle che adottano una reborn dolls per sentirsi madri, un fenomeno degli ultimi tempi al limite tra moda e patologia .

Ci sono quelle che rinunciano al lavoro o si dequalificano. Spesso sono donne brillanti, anche più dei loro uomini. Si trovano a dover scegliere tra la famiglia e il lavoro rinunciando a realizzarsi pienamente perché le forze per fare l’equilibrista non ce le hanno. E perché viviamo in una società che si dichiara pro-bambini ma non fa nulla per aiutare le donne nel ruolo di madri e lavoratrici.

Ci sono donne che amano altre donne, non hanno figli e non per questo sono meno donne. Potrebbero essere brave madri e spesso lo sono. Hanno lottato tenacemente per affermare la propria condizione. Hanno pianto e si sono allontanate dal nucleo familiare per rispettare la propria essenza.

Purtroppo la complessità o la si ama o la si odia. E per molti versi la nostra cultura la odia! Un tempo era tutto più lineare certo. Una donna era bambina, ragazza, moglie, madre, nonna. Fine

Ce ne sono altre che fanno figli per assicurarsi quell’ amore incondizionato che non hanno mai avuto, per poi scoprire di non essere per niente portate a cambiare pannolini.

Poi c’è la donna senza figli che per certi versi viene vista ancora come qualcosa di strano, un essere indecifrabile, un po’ come il nostro caleidoscopio. Di lei si fatica a coglierne l’essenza e il più delle volte destabilizza o provoca diffidenza. Una donna senza figli una volta o era una zitella o una vedova che non aveva fatto in tempo ad averne oppure era una donna sterile e colpevole di non dare figli a suo marito. Fermo poi scoprire un’impotenza maschile.

Nel suo libro “Non me lo chiedete più. #childfree la libertà di non volere figli e non sentirsi in colpa”, Michela Andreozzi descrive in modo ironico e intelligente le tipologie di donne che non ne vogliono. Così scopriamo che tutte possiedono una storia, un profilo, delle ragioni, un percorso, un progetto. Spesso hanno paura di non farcela, di non realizzarsi, di cambiare, di rompere l’equilibrio di coppia, di perdere la libertà, di perdere il lavoro, di non avere le forze fisiche, di sacrificarsi per un altro essere. Sono donne che conoscono i propri limiti. In comune hanno la condizione che si sono scelte e quando riescono ad essere in pace con la propria decisione, sono anche felici.

Tra le tante esiste la radicale che non ha mezze misure. È allergica ai legami, alla famiglia, alla coppia e soprattutto ai bambini. Fino a quella più morbida che prende la vita così come viene e si lascia trasportare dalla corrente. La natura non ha voluto che fosse madre e non se ne fa un cruccio. Ma di contraltare esiste quella che lo deve diventare per forza, frustrata perché non ha scelto di non averne ma non sono venuti. È la donna delle cliniche, del tempo che passa, delle pratiche alternative e delle preghiere. È quella che non rinuncia. E come tutte le sopravvissute è durissima! Fino alla madre childfree 2.0, dedita agli studi prima e poi alla carriera; quella che rincorre l’ascesa professionale, raggiunge l’obiettivo, rimane ferma sul suo percorso senza farsi distrarre dal richiamo delle sirene della maternità. È quella che non rinuncia alla realizzazione né dei suoi progetti personali né di quelli professionali. È quella che si fa congelare gli ovuli per poterli usare nel momento giusto se ancora lo vorrà.

              Siamo così tante che diventa davvero difficile gestire la molteplicità dei nostri esseri e molto spesso diventiamo le peggiori nemiche di noi stesse. Invece di essere sorelle diventiamo sorellastre. Ma le sorellastre e le matrigne ci mettono in contatto con il vuoto che prova un’anima senza consapevolezza e senza amore per sé. Un’anima che vive l’apparenza perché non si è ancora realizzata e non può sopportare quelle che lo sono.

Il punto è che in un mondo maschile abbiamo ancora tanti passi da compiere e questo giro dipende solo da noi. Ciò che possiamo fare è trovare modi per coltivare quel caleidoscopico mondo femminile per realizzarci pienamente!

Se lo ritieni utile puoi condividere l’articolo sui tuoi canali. Se vuoi una consulenza per approfondire questi temi scrivimi. 

Grazie per il tuo tempo!

Pubblicato da Dott.ssa Anna Perna

Formatrice ad approccio umanistico filosofico e Gestalt Counselor. Umanista convinta, mi occupo da oltre 15 anni di apprendimento continuo, di sviluppo della persona e delle comunità. Sono appassionata d'arte e di viaggi e per questo sempre in cammino.

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