Il nostro stile di vita ci ha reso più soli! È un dato di fatto. È il Global Risk Report 2019 a inserire la questione della «sostenibilità umana» tra i principali rischi a cui sono esposte le società contemporanee. Ne parla questo articolo de Il Corriere della sera
Interessanti i dati statistici su società come Regno Unito e Paesi Europei: “nei Paesi Europei, la percentuale di famiglie costituite da una sola persona è raddoppiata negli ultimi 50 anni. Con problemi particolarmente acuti nelle grandi città. A Milano siamo al 40% degli abitanti, a Parigi al 50%, a Stoccolma addirittura al 60%. Anche se imbattibile rimane il centro di Manhattan dove il 90% dei nuclei è composto di una sola persona!” (cito l’articolo) E questo tipo di solitudine è la conseguenza di abitudini culturali che sono nate a partire dagli anni sessanta del 1900.
L’articolo sottolinea come in questo contesto si indeboliscano non solo le relazioni familiari ma anche tutte le reti sociali. In America per esempio, il numero di amici per persona è sceso in media da 2,9 nel 1985 a 2,1 nel 2004, mentre si è triplicata la quota di coloro che dichiarano di non avere nessun amico. Tendenza accentuata negli ultimi 15 anni, data la frenesia delle nostre vite che rende i rapporti interessati e superficiali.
Tra il 1979 e il 2009 la capacità di «mettersi nei panni dell’altro» (empatia) scende del 48%. Questo fenomeno viene attribuito a tre fattori: l’aumento del materialismo e del consumerismo che rende le relazioni uno strumento per soddisfare i propri bisogni individuali; la disintegrazione del sistema familiare come luogo per imparare a relazionarsi; l’insicurezza esistenziale dovuta a fenomeni di natura sempre più violenta sia sul lavoro che nella vita privata; la «eco-camera digitale», cioè la tendenza dei social network a costruire comunità omogenee e chiuse, con la conseguenza di aumentare l’intolleranza verso chi è o la pensa in modo diverso.
Il punto è che le società individualiste, paurose e fragili, sono esposte a rischio di rapide monopolizzazioni del potere da parte di pochi.
Ma ancora di più mi colpisce un passaggio dove si sottolinea che: “nel 2017, quattro intervistati su dieci (la ricerca è internazionale) ammettono di vivere con molte preoccupazioni e stress; 3 su 10 di dover fare i conti col dolore fisico associato a malattie di diverso tipo; 2 su 10 di provare rabbia. Una tendenza che trova conferma in un rapporto della World Health Organization secondo il quale la depressione e i disordini dell’ansia sono aumentati rispettivamente del 54% a del 42%, tra il 1990 and 2015. Più in generale, sempre secondo la stessa fonte, le persone che hanno problemi di salute mentale a livello mondiale hanno ormai superato il numero record di 700 milioni.”
Ma la solitudine è davvero da intendersi come una malattia del singolo?
Purtroppo, la spinta al materialismo e al consumismo fanno sì che le persone si allontanino da una visione dell’esistenza intessuta di rapporti umani, di coesione e solidarietà diventando sempre più individualiste.
Sono convinta invece, che la nostra cultura si debba ricostruire intorno ad una maggiore partecipazione, dove i problemi del singolo non debbano essere affrontati soltanto sulle poltrone del terapeuta ma che ci debbano essere più luoghi di incontro, di condivisione e di partecipazione.
Vedo questo tema adatto ad uno studio integrato che chiami in causa diverse figure e istituzioni non solo per comprendere il fenomeno ma anche per fronteggiarlo nei limiti di quella “liquidità” che caratterizza il nostro tempo.