La figura del mediatore e le competenze relazionali[1]
Un concetto interessante che ci serve per gestire la relazione è quello di confine. Il confine di contatto è quel luogo che segna la differenziazione tra sé e altro da sé e che, quindi, definisce le reciproche responsabilità. Riteniamo che, in ogni fase della mediazione, i clienti si debbano sentire protagonisti e responsabili rispetto al processo. Il mediatore, a sua volta, deve conoscere molto bene il proprio ruolo professionale, deve essere consapevole di ciò che gli è dato fare e di ciò che non gli appartiene. In questo caso sarà necessario fin da subito chiarire il ruolo, facendo notare che il processo relazionale sarà influenzato dall’azione di tutti gli attori.
CONSAPEVOLEZZA
Il concetto di confine, che determina la chiarezza dei ruoli, si lega inevitabilmente a quello di consapevolezza, attraverso la quale si capisce che tipo di contatto gli individui hanno con se stessi, con gli altri e con l’ambiente.
Questa consapevolezza viene suddivisa in quattro tipi: delle sensazioni, dei sentimenti, dei desideri (volere), dei valori (valutazione di sé, dell’altro, della società, della morale). Questo tipo di consapevolezza deve essere sempre riferito a quanto sta accadendo nel presente, piuttosto che a quanto si riferisce ai ricordi del passato. Essere davvero consci significa essere in contatto con i confini del sé e dell’ambiente.
PRESENZA
Altro concetto interessante è quello di presenza. La presenza è radicata nel corpo e si costituisce come consapevolezza nel presente, con la percezione del farsi dell’esperienza. E’ solo nel qui ed ora che assume senso il sistema sensoriale corporeo, il riconoscimento di alcune abilità, di tratti di personalità, sensazioni, emozioni che caratterizzano l’individuo. Tuttavia il passato deve essere elaborato nella misura in cui vi siano sentimenti (rabbia, ira, aggressività, tristezza) o fantasie che non hanno avuto modo di esprimersi, per poter essere riconosciuti e portati a chiusura.
Questi concetti sono di fondamentale importanza, in quanto il ciclo del contatto sano può subire delle interferenze chiamati meccanismi di difesa, dinamiche per lo più inconsapevoli che mettiamo in atto quando ci sentiamo in qualche modo minacciati e vengono agiti quando ci si sente incapaci di mantenere il giusto equilibrio tra sé e il resto del mondo.
La domanda quindi è:
da cosa ci si difende, da cosa si resiste?
Le difese vengono utilizzate quando c’è paura, quando c’è troppa angoscia e ci si sente minacciati. Si sente, più o meno consciamente, che ci si deve trattenere dal fare qualcosa o dal manifestarsi in un qualche modo, principalmente davanti a qualcuno, ma anche con se stessi.
La resistenza infatti si applica nel contatto interpersonale, nell’incontro Io-Tu, ma anche nella relazione intrapsichica tra me e me stesso, quando per esempio evito di prendere consapevolezza di aspetti della mia esperienza di cui ho timore.
Solitamente vengono agiti durante la relazione e si possono manifestare sia attraverso il linguaggio verbale, sia attraverso il comportamento. Essendo inconsci, ci fanno capire esattamente come la persona vive la situazione in uno specifico momento. Nonostante non sia nostro compito risolvere le dinamiche interne della persona, saperle individuare, osservare e, talvolta, anche svelare, ci servirà per comprendere meglio il vissuto emotivo, stabilendo un approccio più profondo ed empatico, che possa andare incontro all’essenza del nostro interlocutore.
Ma vediamo ora qual è la loro natura.
Com’è noto, l’Io si forma attraverso il contatto e in risposta all’ambiente: il bambino scopre precocemente che in certi modi può ottenere soddisfazione ai propri bisogni ed in altri no.
Ecco allora che si struttura l’Io, che nella sua prima manifestazione è dunque una forma di adattamento all’oggetto primario rappresentato dalla madre, una struttura che permette al bambino la sopravvivenza fisica ed emozionale.
I Polster sottolineano che la posizione originaria del bambino è quella dell’unione. Il bambino, quando è ancora feto, è in uno stato fusionale con la madre, non vive una esperienza di separazione e sperimenta uno stato di soddisfazione dei propri bisogni pressoché totale.
Col nascere, poi, c’è l’inizio della separazione, c’è dunque questa polarità unione/separazione che comincia a presentarsi e c’è la tendenza dell’organismo ad andare verso l’unione e quindi a ritornare nella condizione originaria. Nel corso del suo sviluppo, però, dopo qualche tempo il bambino si rende conto che tale condizione non è più praticabile e sorge in lui la necessità di sviluppare la separazione dalla madre o comunque dalla sua figura primaria di attaccamento.
In ogni caso, in tutto il ciclo di vita, ogni individuo procede attraverso questa polarità tra la tendenza ad essere unito con l’oggetto, quindi con l’ambiente e la necessità di esserne separato e cioè di sviluppare una differenziazione: è proprio in mezzo a questa polarità, nello spazio compreso tra l’unione e la separazione con e dall’oggetto, che di fatto si sviluppano tutte le possibili forme di resistenza.
ADATTAMENTO CREATIVO
La capacità creativa di adattamento e di muoversi in maniera armoniosa all’interno di questa polarità è ciò che potremmo definire un buon contatto.
Quindi, un buon contatto non è unione, non è separazione, ma è, da una parte, la capacità di essere uniti con l’oggetto, e dall’altra, la capacità di mantenere un’identità separata, dunque una capacità di auto-sostegno e di differenziazione dall’ambiente. Quando l’individuo si sviluppa in modo sano, manifesta questa elasticità che permette di essere in armonia e, allo stesso tempo, di non essere dipendente e di funzionare separatamente.
Per Perls, le resistenze sono chiamate anche “disturbi al confine del contatto”, cioè disturbi nella relazione organismo/ambiente, secondo la definizione gestaltica oppure nella relazione sé/oggetto, in quella psicoanalitica.
In generale quindi, quando si parla di resistenze, dobbiamo immaginare che qualcosa accade nella zona intermedia fra l’Io ed il Tu.
L’Io ed il Tu sono la diade della relazione del contatto interpersonale e la zona intermedia dove si applicano i meccanismi di difesa o resistenze, sono il confine del contatto e quando, in questo spazio, la relazione non è armoniosa, si manifestano disturbi di vario genere.
Queste resistenze si manifestano in tutti gli essere umani in misura variabile e non è ragionevole pensare di esserne al di sopra. D’altra parte in psicoterapia della Gestalt esse non sono considerate “ignobili” o qualcosa di necessariamente negativo, ma piuttosto esprimono metodi e strategie che l’individuo ha utilizzato per poter stare nel mondo. Ognuno di noi ha cercato di fare del suo meglio per sopravvivere in un ambiente difficile.
Quindi, dobbiamo comprendere il significato delle resistenze che ci hanno aiutato a sopravvivere e rispettarle.
Dicono i Polster[2]: “Ciò che generalmente viene definito con il termine resistenza non è una barriera sorda da rimuovere, ma una forza creativa la cui funzione è quella di gestire un mondo difficile.”
Rispettarle naturalmente vuol dire non negarle né comunque subirle, ma piuttosto divenirne consapevoli, conoscerle, osservarle, anche eventualmente allo scopo di trovare nuovi modi di rispondere alle proprie difficoltà.
[1] Tratto da “Mediazione civile e tributaria a confronto” a cura di Anna Perna, Massimiliano Ferrari e Zaira Pagliara ed. ADMAIORA, Roma 2016. Vedi cap. Cap. VIII “Competenze relazionali del mediatore”, pag 331-394
[2] Polster E., Polster M., La psicoterapia della gestalt, (intervista a cura) di M. Spagnuolo Lobb, in “Quaderni di Gestalt”, Milano, Ed. Franco Angeli, 1985
Una opinione su "I comportamenti come meccanismi di difesa"