Non ho bellissimi ricordi del liceo. Quando mi chiedevano come immaginavo il futuro non sapevo rispondere perché ero così presa dal vortice del mio pessimismo cosmico adolescenziale che l’eternità si trasformava in una materia densa e pesantissima. Io quella spensieratezza di cui sento tanto parlare, quella dei bei tempi della giovinezza non l’ho mai provata e se qualcuno mi chiedesse di fare cambio direi, No grazie!
La giovinezza è sopravvalutata per ovvie ragioni. Si ha la vita davanti, è tutto nuovo e si è avidi di esperienze. Ma il mondo emotivo è spesso un turbine ingestibile e pieno di contraddizioni. Oggi invece posso affrontare tutte le paure, le seccature e le difficoltà con una consapevolezza che anche solo dieci anni fa non potevo permettermi. Questa è la magia del tempo che passa quando è speso bene. Quello che voglio dire ai giovani è state tranquilli, fate le vostre esperienze, assumetevi la responsabilità delle conseguenze e vivete la vostra vita. Purché sia la vostra.
La chiarezza è un privilegio che si conquista con introspezione e tempo. E saper rimanere nella nebbia non è sempre un male. Lo so che nell’indecisione non si sta bene e neppure nella con-fusione ma la bella notizia è che passa. Per fortuna si incontrano bravi e cattivi maestri e qualche volta anche adulti che per lavoro come me, aiutano le persone a trovare la propria strada.
Ma l’adolescenza è solo una delle tante crisi che si possono passare nella vita e che sono momenti necessari per cambiare pelle come le lucertole. Uno degli ambiti più delicati e complessi è quello del lavoro. Io mi trovo nella piacevole situazione di poter scegliere e grazie alla mia professione posso continuare a studiare, cosa che mi fa sentire giovane.
Questo tema è sempre stato un cruccio in tutte le epoche e per diversi motivi. E oggi che viviamo il fenomeno delle grandi dimissioni tutto sembra assumere una prospettiva differente. Credo che le vecchie generazioni non abbiano ancora accettato il fatto che a fronte di un mondo del lavoro sempre più mediocre e meno tutelato, il senso dell’esistere si ricerchi in altre dimensioni. Il punto è che dobbiamo rallentare per tornare ai ritmi delle clessidre.

Abbiamo la fortuna di vivere l’epoca in cui si può realizzare l’antico miraggio che già l’antica Grecia sognava. Uomini liberati dal lavoro attraverso le intelligenze artificiali già presenti nell’ Iliade, in cui tripodi e ancelle capaci di intelletto, parole e sentimenti escono dalla fucina di Efesto. Questo ci deve far capire una cosa: qualsiasi cosa l’esser umano è in grado di immaginare, prima o poi lo realizzerà. Ed è molto potente.
Ma se le nuove tecnologie ci liberano dal lavoro, come riempiamo quel tempo? Gli antichi amavano distinguere otium e negozio in cui il momento dell’ozio non era inteso come il un dolce far nulla ma un investimento per la cura dello spirito, della saggezza, del pensiero, della scrittura, della discussione. Cioè, tutto quello che serve per accendere la creatività che ci rende umani. È solo con la narrazione borghese e capitalista che il lavoro e la famiglia diventano il senso al nostro esistere. E questa storia ce l’hanno raccontata così bene che oggi esiste una sovrapposizione tra vita personale e vita professionale. Ma tutte queste ore, edulcorate dalla retorica della performance soddisfano davvero i nostri bisogni?
Molto spesso mi capita di parlare con persone che rincorrendo obiettivi e produttività in un circolo vizioso, tendendo a saturare la loro vita a discapito della salute e delle relazioni, in contesti sempre meno sani e tutelati. La sensazione che si vive è spesso associata al senso di solitudine accompagnato da stati di nervosismo, burnout, depressione e senso di smarrimento. Ma se viene riconosciuto il valore esistenziale del lavoro, tanto da essere il primo fondamento della nostra Carta costituzionale, allora perché non di creano condizioni migliori invece che rendere istituzionali instabilità e precarietà?
Frasi come “fai quello che ti piace e non lavorerai neppure un giorno” vengono troppo spesso usate per giustificare sfruttamento e indurre auto sfruttamento. Infondo chi fa ciò che ama in realtà non lavora per davvero e per questo non dovrebbe chiedere nulla in cambio. Per chi fa la libera professione, per esempio, il lavoro diventa sovrapponibile alla vita tanto da rinunciare agli altri ambiti[1]. Così, la retorica della performance a tutti i costi, unita alla perdita di uno scopo legato alla propria esistenza, stanno cambiando le necessità di quelli che vogliono controbilanciare questi modelli con una visione più incline a rispettare la qualità della vita.
Riprendersi il proprio tempo significa riuscire a controllare e decidere quanto, quando e per quanto lavorare. Significa riprendersi il diritto al tempo libero, che non è più da intendersi come un’anomalia rispetto a quella del lavoratore che è felice quando è produttivo. Ma come organizzare il tempo dell’esistenza e a che scopo?

Purtroppo, è ancora diffusa la poca consapevolezza di come impiegare questo tempo scambiando obiettivi e azioni per le finalità.
Esiste un esercizio interessante per il suo impatto visivo in cui si propone una ruota della vita suddivisa in ambiti a cui dare delle priorità. Al di là dell’impatto emotivo che emerge ogni volta che le persone si accingono a questa riflessione, la cosa davvero interessante è che quando lo propongo senza suggerire cosa scrivere, la maggior parte fatica come se ci fosse un freno o una resistenza alla possibilità di immaginarsi al di là del lavoro e della famiglia. Come vogliamo utilizzare il tempo che ci è concesso e cosa è davvero importante per noi? Cosa ci gratifica per davvero e come possiamo impegnare i nostri talenti per noi stessi e per la comunità?
Non credo che esista uno scopo generico. Credo piuttosto che questo scopo ce lo diamo noi realizzando la nostra vera essenza, in una visione che supera l’individualismo e che possa riconnetterci alla società e all’intera umanità. È un viaggio che scopriremo solo vivendo e nel momento in cui arriveremo a compimento. Un viaggio nel tempo e nello spazio che possiamo decidere come vivere, granello dopo granello, nella clessidra della nostra vita.
[1] Busso. A, Lavorare meno. Se otto ore sembran poche. Ed. Gruppo Abele, pp. 96-99

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