Era il 2011. Un buon periodo della mia vita. Sentivo una forte spinta creativa e il mio gruppo di teatro la Compagnia V’Erasimile, era in un momento di grande fermento e folli intuizioni. Il periodo che abbiamo vissuto insieme dal 2002 è stato davvero magico e devo dire che la libertà di espressione e l’armonia tra di noi difficilmente li ho trovati in altri gruppi di teatro. Avevamo voglia di sperimentare e di metterci in gioco senza censure. Ci concedevamo tutto, anche le proposte più assurde. Ci definivamo un libero gruppo che voleva utilizzare il teatro non solo come narrazione ma anche come relazione comunitaria. La maggior parte di noi proveniva da una formazione con registi e poeti come Cesar Brie e il Teatro Nucleo che hanno sempre fatto del teatro un luogo di condivisione per una poetica sociale.
Per noi nel racconto c’è sempre stato il risveglio di una memoria, la ricerca di una storia appartenente al vissuto personale o come memorie di luoghi scomparsi o storie verosimili come miti, fiabe, leggende. Ma ciò che rendeva stimolante il nostro modo di raccontare era quella spirale emozionale che si innescava tra noi e il pubblico. Un coinvolgimento che ha bisogno di un tempo lento – sia nella ricerca che nella stesura del testo – dove la riscoperta delle parole e dei gesti vogliono svelare la poetica del quotidiano. Ed è per questo che sono sempre stata particolarmente attenta ai temi di natura sociale che ho poi cercato di riproporre anche in seguito, attraverso la qualità della ricerca.
Era un periodo dove l’ardore dei sentimenti si manifestava molto forte e così decidemmo di mettere in scena La casa degli spiriti di Isabelle Allende, una storia appassionata e per certi versi misteriosa. I personaggi hanno caratteri tridimensionali dalle mille sfaccettature e approfondirli è stato davvero interessante. E interessante è stata la drammaturgia perché non contenti dei soliti teatri, abbiamo pensato di costruire un racconto itinerante allestito per una bellissima acetaia del nostro territorio e poi in altre suggestive dimore al confine tra l’Emila e la Toscana.

Ma per accompagnare il pubblico nel nostro percorso narrativo serviva una figura che lo traghettasse. E chi meglio della stessa autrice lo avrebbe potuto fare? Così, finì che interpretai proprio il ruolo dell’autrice. Ero Isabelle Allende. Una donna impegnata artisticamente e politicamente caratterizzata da una vena misteriosa, visionaria e intuitiva, qualità che ho scoperto anche in me. Studiando il personaggio, decisi di interpretarla come una lettrice di tarocchi e così capitò di approfondire questo eccezionale gioco di lettura della realtà. Lo spettacolo iniziava proprio così. Il pubblico si riuniva e veniva portato dalla ierstica lettrice. Io aspettavo in religioso silenzio mescolando il mazzo. Poi guardavo una persona e la invitavo a sedersi. E qui cominciava il rituale: la scelta delle carte, la sistemazione sul tavolo, le domande e l’interpretazione. L’idea era suggestiva perché ogni volta si presentavano situazioni differenti e il pubblico sembrava davvero incuriosito. Naturalmente per prepararmi ho dovuto studiare i Tarocchi e a riguardo ho scoperto cose davvero interessanti. Anzitutto ho imparato che questo antichissimo gioco non serve a scoprire il futuro ma piuttosto il proprio inconscio. E che tutto ciò può avvenire affinando la percezione attraverso l’osservazione, l’ascolto, l’ immaginazione e quella dell’altro. Ne la “La Via dei Tarocchi”, Marianne Costa insieme ad Alejandro Jodorowsky ne sviluppano una visione umanistica e poetica basata sulle allegorie e sulla numerologia. Lo stesso Carl Gustav Jung, psicoanalista e psichiatra svizzero, contribuì alla loro diffusione parlando di archetipi. In questo modo se si esclude la predizione del futuro e la psicologia da bar, diventa possibile considerarlo come un cammino di armonizzazione tra saggezza, intuito e creatività.
Ma l’utilizzo più interessante per risvegliare la dimensione creativa della narrazione fu il contributo di Italo Calvino ne Il castello dei destini incrociati, che usò queste carte come un insieme di combinazioni per narrare i destini umani. Con questo stratagemma, lo scrittore cercò un sistema che gli consentisse di “rivelare” a sé stesso e ai lettori le storie che le carte sembravano segretamente contenere. Una “macchina narrativa combinatoria” per stimolare la parte creativa della nostra mente. Ed è così che da storie nascono altre storie dove i personaggi si confondono tra reale e fantastico.

Per leggere i Tarocchi non basta lasciarsi andare alla fantasia ma esistono delle indicazioni che fanno da palestra per la mente. La prima regola è la consapevolezza di sé per non cadere nella trappola della proiezione. Infatti, questo esercizio diventa più efficace se ci si apre al confronto. La seconda regola è definire bene ciò che si vuole; un’esercizio tutt’altro che semplice visto che la maggior parte delle persone fatica a fare chiarezza sui bisogni e i desideri spesso confondendoli. Una volta che si è inquadrata la situazione, la terza regola è restare in ascolto, per poter “percepire” i messaggi sottili che l’Universo ci invia. L’ultima regola è concentrarsi su quello che c’è e non cedere nella tentazione di vedere ciò che non esiste. I simboli delle carte hanno significati precisi che vanno studiati prima di inserirli nella lettura del contesto. In questo modo la mente accede ad un’altra capacità poco sviluppata: il pensiero complesso. Ci sono tanti modi di leggere le carte e tanti giochi che si possono fare: scegliere quella che ci attira di più e quella che ci piace di meno, fino ad arrivare ad intrecci più complessi e articolati.
Quello che ho imparato dalla lettura dei Tarocchi è l’intima connessione che si può stabilire tra il nostro mondo e quello degli altri in una dimensione di gioco, un divertimento che stimola la curiosità lasciando aperte le porte del mistero e della meraviglia.

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