Una bandiera per la pace

Manifestazione per la pace Roma 2025

Ci sono momenti nella storia dell’umanità che segnano un confine netto. Per la cultura occidentale, il più emblematico è “avanti Cristo” e “dopo Cristo”. In modo quasi ironico, possiamo usare queste stesse sigle per indicare la pandemia: a.C. e d.C., ossia “prima del Covid” e “dopo il Covid”. È stato un passaggio che ha sconvolto ogni certezza, un punto di non ritorno che ha cambiato profondamente la percezione di ciò che siamo come esseri umani. Durante i giorni più bui dell’isolamento, nonostante la paura e l’incertezza, ho sperato che quel trauma collettivo potesse insegnarci qualcosa. Ho sperato che il silenzio delle città vuote, interrotto solo dal canto degli uccelli, ci avrebbe fatto riflettere su quanto stavamo perdendo rincorrendo una vita frenetica, spesso priva di significato. Ho sperato che la visione di una natura più rigogliosa, libera dalla nostra incessante presenza, ci avrebbe spinto a rallentare e a vivere in modo più rispettoso. In quei momenti, ci ripetevamo che “andrà tutto bene”, forse più per convincere noi stessi che per reale convinzione. Ma oggi, guardandomi intorno, mi chiedo se qualcosa sia davvero cambiato. La pandemia sembrava un’occasione per ripensarci come comunità, ma ciò che è venuto dopo mi ha fatto dubitare di quella speranza.

Quando il Covid si è allontanato, nuovi conflitti hanno preso il sopravvento. La Russia ha invaso l’Ucraina, riportando in Europa lo spettro della guerra. E il conflitto tra Israele e Palestina, mai sopito, si è trasformato in un genocidio a Gaza. Questi eventi mi hanno fatto capire quanto poco abbiamo imparato: se la pandemia ci aveva mostrato la fragilità della nostra interconnessione, la violenza di oggi rivela quanto poco abbiamo fatto per proteggerla. Viviamo in un tempo in cui le parole stesse sembrano aver perso significato. “Pace” è diventata un termine vuoto, usato per giustificare bombardamenti; “accoglienza” si è trasformata in sinonimo di deportazione; “guerra” è spesso solo un eufemismo per genocidio. Di fronte a immagini di violenza, di bambini senza vita, mi sono accorta che molte persone provano una forma di anestesia come se guardassero l’ennesima serie TV. Ogni giorno siamo bombardati da scene di dolore che sembra inevitabile. Durante questi anni, ho capito che il senso di impotenza che spesso proviamo davanti a questi grandi eventi è indotto da chi trae vantaggio dalla nostra passività, dalla convinzione che “non possiamo fare niente”. Ma non è vero. La storia ci insegna che la società civile ha sempre avuto un ruolo centrale nel cambiare il corso degli eventi.

Per questo, credo che anche i gesti simbolici abbiano un valore profondo. Indossare il kefiah è stato per me un modo per esprimere solidarietà verso il popolo palestinese e la sua storia. Quel semplice tessuto intrecciato non è solo un accessorio: è un simbolo potente che racconta una lotta, una resistenza, un’identità. I suoi motivi decorativi hanno un significato profondo. La rete rappresenta l’economia tradizionale basata sulla pesca, un’attività fondamentale per le comunità che vivono lungo le coste del Mediterraneo e del Mar Morto. Le incisioni di foglie di ulivo, invece, sono un simbolo universale di pace, prosperità e rinascita, radicato profondamente nell’iconografia mediterranea e palestinese. Quando lo indosso, sento di portare con me non solo un segno di solidarietà, ma anche la memoria di un popolo che resiste, giorno dopo giorno, alle ingiustizie.

Ma non basta un simbolo, per quanto potente. Credo fermamente che, come singoli, abbiamo il dovere di studiare la storia, di approfondirla, per comprendere da dove arrivano gli eventi contemporanei. Non possiamo leggere il presente senza conoscere il passato. Non possiamo parlare di conflitti senza sapere quali ferite irrisolte, quali ingiustizie storiche, abbiano portato a quelle guerre. Studiare la storia non è solo un esercizio intellettuale: è uno strumento per costruire consapevolezza, per smontare le narrazioni distorte che spesso ci vengono imposte.

Penso spesso ai lavoratori portuali di Genova, del Pireo e di Marsiglia, che si sono rifiutati di caricare le armi che noi occidentali vendiamo a Israele. Quel gesto, piccolo rispetto alla vastità della macchina della morte, ha rappresentato per me una scintilla di speranza. È stato un atto di resistenza al cinismo dominante, un segno che, anche nelle situazioni più oscure, c’è chi sceglie di rimanere umano.

Non posso ignorare, però, quanto sia facile sentirsi sopraffatti. La guerra di oggi non è più quella delle trincee fangose, dove i nemici si guardavano negli occhi prima del colpo finale. È una guerra a distanza, fatta di droni, di comandi remoti, di tecnologie che riducono le persone a “obiettivi strategici”. È una guerra disumana, impersonalmente crudele, che spesso si trasforma in spettacolo o, peggio, in turismo di guerra, dove si osservano vite spegnersi come se fosse un intrattenimento.

Ma non dobbiamo rassegnarci. Durante la pandemia, ho scoperto quanto le piccole azioni possano fare la differenza: un gesto di solidarietà, un messaggio di speranza, una mano tesa nel momento del bisogno. Allo stesso modo, oggi, possiamo scegliere di partecipare attivamente. Possiamo unirci a chi resiste, a chi organizza fiaccolate, a chi protesta, a chi porta aiuti, come fa la Freedom Flotilla, cercando di rompere il blocco navale su Gaza per portare soccorso a chi soffre.

Chi racconta il mondo ha una responsabilità. Io credo che scrittori, giornalisti e artisti debbano opporsi a questa deriva, restituendo volti e storie alle ombre. Non possiamo raccontare la guerra con il linguaggio della distanza: dobbiamo parlare di persone, non di statistiche. Dobbiamo raccontare ciò che la guerra nasconde, le vite spezzate, le emozioni, le speranze infrante.

Incontro pubblico di gruppi, associazioni e singoli per creare una rete di accoglienza per i bimbi di Gaza

Per me, la comunicazione può essere una forma di resistenza. Può diventare un ponte, uno strumento di empatia, una bandiera per la pace. E io voglio alzarla.

Resistere all’indifferenza significa scegliere di rimanere umani. Partecipare significa trasformare la speranza in azione. La società civile, quando si unisce, ha il potere di cambiare la storia. Lo credo fermamente. E oggi, più che mai, sento che è nostro dovere provarci.

***

Grazie per il tuo tempo.

Pubblicato da Dott.ssa Anna Perna

Formatrice ad approccio umanistico esistenziale e Counselor Professionista Supervisore. Mi occupo da oltre 20 anni di apprendimento continuo, di sviluppo della persona e delle comunità. Sono appassionata d'arte e di viaggi e per questo sempre in cammino.

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