Droni


Volano nel cielo piccoli e silenziosi. Talvolta sembrano giocattoli, talvolta insetti altre aquiloni telecomandati. Si muovono con precisione innaturale  osservandoci dall’alto. Fotografano, registrano senza esitazioni con freddezza chirurgica. Potenzialmente, sanno tutto. A cinquanta metri di altezza, con una fotocamera da venti megapixel, possono catturare i tratti di un volto, riconoscerlo, archiviarlo. Con uno zoom ottico avanzato, vedono anche a cento o duecento metri.

Eppure, per quanto siano avanzati, manca loro qualcosa. Non vedono le anime, non colgono ciò che ci rende umani. 

È forse per questo che la guerra moderna si è affidata al loro occhio. Non c’è più il corpo a corpo, non ci sono più le trincee fangose o il sudore di chi combatte guardando negli occhi il nemico. La guerra, oggi, è distanza, è schermi e comandi remoti. I droni volano silenziosi sopra città e villaggi, e da una postazione lontana, qualcuno decide il destino di chi si trova sotto quelle ali metalliche. Nessuno guarda più negli occhi l’Altro, nessuno sente il peso del suo respiro o vede la paura nei suoi lineamenti. Non è più la guerra di Piero, che, marciando con l’anima in spalle, sceglie di non sparare perché in quegli occhi riconosce un riflesso di sé. 

Oggi, la guerra è un videogioco. Si schiaccia un pulsante, si osserva un’esplosione su un monitor, si contano i “bersagli” eliminati. Ma chi sono davvero quei bersagli?

Erano madri, figli, fratelli, uomini e donne con storie, sogni, speranze. Eppure, trasformati in ombre lontane, in pixel su uno schermo, diventano facili da ignorare. La deumanizzazione è completa, e con essa la coscienza si assopisce.

Ma qualcosa può cambiare. Coloro che raccontano il mondo, possono opporsi a questa deriva. Possono restituire volti e storie a quelle ombre. Possono raccontare la guerra non con il linguaggio della distanza, ma con quello dell’umanità.

Immaginate una storia: un padre che cerca di proteggere i suoi figli sotto un bombardamento, una madre che attraversa confini per mettere in salvo la sua famiglia su un barcone, un bambino che disegna fiori su un muro distrutto. Queste non sono statistiche, non sono “danni collaterali”. Sono vite. 

Ecco dove i comunicatori possono fare la differenza. Possono scegliere di mostrare ciò che la guerra nasconde: i volti, le emozioni, il dolore. Possono denunciare il linguaggio che disumanizza, che riduce le persone a “obiettivi strategici” o “minacce”. Possono raccontare storie di pace, di riconciliazione, di chi ha scelto di tendere una mano invece di impugnare un’arma. 

E non si tratta solo di raccontare, ma di educare. La comunicazione può diventare uno strumento di empatia, un ponte che unisce ciò che la guerra divide. Mostrare che, al di là delle differenze, condividiamo tutti le stesse paure, gli stessi desideri, la stessa voglia di vivere.

Un padre, sotto le bombe, non è diverso da un padre in una città in pace. Un bambino che piange per la perdita di una casa non è diverso da un bambino che piange perché ha paura del buio. 

La responsabilità di chi lavora nel campo della comunicazione è immensa. Non si tratta solo di informare, ma di raccontare con etica, di dare voce a chi non ne ha, di costruire narrazioni che ricordino a tutti che dietro ogni conflitto ci sono esseri umani. E in questo, i comunicatori possono diventare i custodi dell’umanità, coloro che si oppongono a una guerra che, per vincere, deve prima cancellare i volti e le anime delle sue vittime.

Perché, in fondo, la pace inizia quando riconosciamo l’Altro. Quando smettiamo di vederlo come un’ombra e torniamo a guardarlo negli occhi.

Se ti è piaciuto questo racconto e hai voglia di condividere i tuoi ricordi o le tue impressioni, ti invito a lasciare un commento. Sarò felice di leggere le tue esperienze e, perché no, continuare a viaggiare insieme attraverso le parole perché in ogni relazione c’è arricchimento.
Grazie per il tuo tempo!

Pubblicato da Dott.ssa Anna Perna

Formatrice ad approccio umanistico esistenziale e Counselor Professionista Supervisore. Mi occupo da oltre 20 anni di apprendimento continuo, di sviluppo della persona e delle comunità. Sono appassionata d'arte e di viaggi e per questo sempre in cammino.

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