(Copertina di Millemariù)
Quaranta gradi. Il caldo alla testa. Dicono che sia l’estate più calda in assoluto ma ormai è così tutte le estati. Coprirsi, bere, muoversi poco, fare il minimo indispensabile. Le città sono roventi e il cemento non aiuta. Qualche polmone verde invece sì. Per fortuna ci sono i parchi. Gli alberi ci respirano. Ne abbiamo bisogno per non dare di matto.
Immaginiamoci in scatole di cemento con finestre senza tende e il sole per 15 ore a condividere con chi non abitiamo. Niente riservatezza. Pazienza tanta. Un giorno avanti l’altro.
Ascoltare è immedesimarsi. Aprirsi. Comprendere. Prendere. Apprendere. Sentire. Sentirsi. Attendere. Il venerdì pomeriggio è il momento della reclusione. Nella speranza di portare qualche goccia fresca invece del sudore.
Detenute. Piegate dalla calura. La sofferenza che odora di ferro caldo. E occhi per guardare il cielo quando si può. Meglio l’immaginazione. Perché di notte la coscienza parla. Nei corpi parla. Nei volti parla. Sogno un tunnel buio e senza fine. Dalle pareti odore di caffè. Voci e suoni e figure che non riconosco. Forse uno spiraglio o la coinquilina che mi sveglia. Sigarette. Che anche se bruciano dentro almeno si fumano fuori.
Come cambiano le persone quando vivono rinchiuse. Sono segni segnati sui volti. Nei capelli, nelle mani. Nei sorrisi con le finestre tra i denti. E gli occhi. Oceani nel vortice. Talvolta c’è così tanto bisogno di raccontarsi che le parole scendono in piena. È più difficile spiegare perché si entra il venerdì pomeriggio piuttosto che accogliere quello che le donne dicono. Si entra per rimanere umani e sufficientemente sani.
C’era una volta un carceriere in un carcere dove stavano i detenuti in attesa di processo. Era felice di fare il suo lavoro perché sapeva che se erano lì c’era un motivo e quando qualche detenuto veniva riconosciuto innocente scaricava il suo disprezzo sui giudici incompetenti. Ma a questo carceriere non era mai venuto in mente che l’unico vero carcerato era lui che passava tutta la sua vita in quella prigione, mentre i detenuti ci stavano giusto il tempo necessario per essere riconosciuti innocenti o colpevoli per scontare la propria pena.
Suggestioni. Siamo noi che aiutiamo o viceversa?
Specchi. Qual è la nostra pena? Ogni frase lanciata è un diapason che scende scende scende. Qual è la nostra colpa? Scagliamo così tante pietre che non ce n’è rimasta nemmeno una. Così c’è scritto.
Il privilegio della lettura. Perché, quando si è dentro o si impazzisce o si cade tra la pagina 54 e la 55. Elevarsi. Uscire dai muri su fogli prestati ricopiando frasi da libri ammuffiti. Rileggo quella che sembra scritta per me. “Ricordati di splendere”. Ma come faceva a sapermi? Un altro tatuaggio insieme a Ciro il mio amore e Serena che per fortuna sua non ha preso da me.
Il caldo si fa polemica. Contro. Come un’ Antigone contro ogni Creonte. Sepolta nella grotta che almeno lì c’era fresco. Al fresco. Stare al fresco. Forse è per questo che ce l’hanno messa. Con la calura e una soglia di umidità che in situazioni normali toglie la ragione. Ci manca solo che vada via pure quella. A volte evade. Altro che se lo fa. Ecco perché ci tolgono le tende. Per non fare come lei!
L’attesa. Ecco cosa si impara in galera.
Quanto dura un’ ora? Impegnare la mente a rimanere sobri. Ma c’è bisogno di un buon motivo. Una fotografia, una lettera. Le visite. Ecco per fortuna ci sono le visite, le telefonate e i colloqui. La famiglia. Un amore che aspetta. Perché la mamma è la mamma. I figli pezzi di carne fatti a sangue e somiglianza.
La mancanza si fa tormento. Eccola la pena!
Aspettare. I tempi dell’impazienza sono del mondo di fuori. Cosa sarà domani? Probabilmente la copia conforme di un oggi ripetuto in eterno fino al foglio di via. Ma per andare dove? A fare cosa? Meglio non pensare che in ogni caso vitto e alloggio ce l’hai.
Si cambia in meglio o in peggio?

Nella città l’ inferno di Renato Castellan, 1959
Cosa vuoi sapere? Se lo rifarei? Certo che no! Anche solo per non finire di nuovo qui. O lo farò solo meglio. Perché la vita è una serie di frammenti e ripetizioni e trame che si intrecciano nuotando per restare a galla.
Io un’altra me non so neppure immaginarla!
Sicuramente si cambia ma a dirlo devono essere gli altri, quelli che scordano sempre il perdono1. Quelli che studiano le carte. Carte. Maree di carte. La vita in un fascicolo. Numeri su numeri. Casi.
Se non piango non mi pento. Dicono. Peccato non farlo a comando. Redimersi. Magari ci scappa un permesso. Lo dice anche l’ Imam.
Le voci si confondono. Sono loro che parlano o sono io? Confondersi. Fondersi negli umori che mica rimbalzano! Non mi tocca. Alzo le spalle. Fossi capace! E invece mi tocca mi tocca. Mi tocca infondo che a dirlo non trovo le parole. Ma per fortuna non sono obbligata.
Un sorriso, un abbraccio, due cazzate. Il sesso è sempre un buon argomento. Per fortuna si ride che il tempo del pudore è finito nel momento in cui siamo entrate la prima volta. Con quei falli enormi disegnati come fiori che si ergono in alto e inebriano le cosce aperte dalla calura.
Il pudore tornerà? Forse sì quando usciremo. E la vergogna tornerà? Là fuori non la trovano più. Dicono che si è persa tra le poltrone del Parlamento. Io invece me la tengo stretta per inventare scuse quando chiamo a casa. Dove sono? In Albania, prima o poi tornerò.
Il tempo si ferma con le braccia aperte e ferme alle 10 e 10 in camera di consiglio in attesa di un responso. Sei ancora qui? Sono tre ingressi fa che dovevi uscire.
Meglio non illudersi. Ecco cosa si impara in carcere. Basta vivere o sopravvivere. Un passo avanti l’altro. Che poi si scorre via.

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